Posto l'articolo di Viglezio di ieri sul CdT
Lega, abbiamo un problema
Sull’appassionante finale tra Lugano e Berna si allunga l’ombra delle sviste arbitrali Gli organi disciplinari mancano di indipendenza e non tutelano la salute dei giocatori
Due finali per il prezzo di una. Fortunati, vero, gli appassionanti che assistono all’atto conclusivo dei playoff? Solo in parte. Già, perché da un lato c’è un duello appassionante, da togliere il fiato, tra due squadre – Lugano e Berna, ovviamente – che stanno offrendo uno spettacolo di primissima qualità. A tutti i livelli, è un trionfo di emozioni. Velocità, gesti tecnici, dettagli tattici, scontri fisici. Tutti gli ingredienti per rendere unica una finale sono presenti. Si va anche oltre il limite a volte – cosa che non tutti apprezzano, soprattutto coloro che al disco su ghiaccio si avvicinano solo nella fase cruciale della stagione – ma anche le provocazioni più o meno plateali fanno parte del mondo dell’hockey e dei playoff in particolare.
Bianconeri e Orsi – indipendentemente da come andrà a finire una serie ancora apertissima ad ogni soluzione – stanno insomma onorando la finalissima del campionato. C’erano pochi dubbi, considerando il potenziale delle due squadre e la storica rivalità che le separa. O che le unisce, in fondo.
L’altra faccia della sfida
Dall’altro lato c’è poi una seconda finale. Molto meno divertente, purtroppo. È quella che vede indesiderata protagonista la classe arbitrale e, più in generale, la piramide organizzativa della Lega e del suo sistema disciplinare in particolare. Dopo una stagione regolare già complicata e una prima fase di playoff ricca di episodi controversi, in questa finale se ne vedono un po’ di tutti i colori e ciò fa male al movimento hockeistico elvetico, indipendentemente dalla fede sportiva. È in gioco la credibilità di una disciplina in cui il crescente professionalismo adottato dai vari club cozza contro un disarmante dilettantismo dei vertici decisionali, in preda ad una sconcertante confusione. Il problema alla base è figlio dell’incapacità – probabilmente anche a livello di formazione – della classe arbitrale di adattarsi ad un ritmo di gioco diventato sempre più rapido. L’introduzione del secondo direttore di gara principale doveva rappresentare la panacea di tutti i mali, ma così non è stato. Anzi, in più di un’occasione la differenza del metro di giudizio tra i due arbitri ha ulteriormente complicato lo scenario.
Troppi episodi dubbi
Certo, dalle tribune tutto sembra facile. Ed è pur vero che l’errore è umano: il mestiere dell’arbitro è tutt’altro che evidente in una disciplina in cui le regole non sono sempre di chiara comprensione. Gli episodi dubbi, in questa prima fase della serie di finale, sono però decisamente troppi: a cominciare dalla carica alla testa di Beat Gerber in gara-2 sanzionata con soli due minuti di penalità, fino alla clamorosa bastonata ricevuta da Damien Brunner nel terzo tempo da parte di un Simon Moser rimasto impunito e passando – giusto citarlo – dal colpo di bastone di Alessio Bertaggia, anche lui scampato a sanzioni da parte degli arbitri. E se a pensare male si fa peccato, vien da credere che ci sia stata la più classica delle compensazioni. Si cancella un errore commettendone un altro, insomma. Incompetenza, paura, malafede? Poco importa, in fin dei conti: ciò che più conta è che questa bellissima finale meriterebbe – anzi, merita assolutamente – di non essere condizionata da decisioni sconcertanti.
Una piramide che scricchiola
Le lacune della classe arbitrale mettono così impietosamente in evidenza le mancanze di una piramide decisionale – a livello di commissione disciplinare della Lega – che scricchiola pericolosamente. Il sistema non regge perché non esiste una vera indipendenza per chi è chiamato a prendere decisioni importanti e, soprattutto, a garantire l’integrità fisica dei giocatori. Finché l’organigramma e l’organizzazione saranno quelli attuali, è impossibile attendersi miglioramenti. L’ex arbitro Stéphane Auger – al centro di numerose polemiche quando fischiava in NHL – se ne sta tranquillamente seduto oltre oceano a osservare video senza che nessuno sappia veramente quali siano i suoi metri di giudizio. Del giudice unico Reto Steinmann – dimissionario a fine stagione – un giorno si ricorderà in particolare la lettera d’amore che scrisse a Henrik Zetterberg quando l’attaccante svedese lasciò lo Zugo (squadra di cui Steinmann è notoriamente tifoso) per tornare in Nordamerica al termine dell’ultimo «lockout». E poi ci sono i capi degli arbitri, Brent Reiber e Beat Kaufmann, che la parola autocritica non sanno nemmeno dove stia di casa. Normale, in un certo senso: cercano di difendere la categoria a spada tratta, con tanti saluti all’obiettività. E, lo ribadiamo, alla salute dei giocatori. Quella di Julien Sprunger «che non pattina attivamente ma scivola semplicemente sul ghiaccio» prima di procurare una tripla frattura allo zigomo al ginevrino Daniel Rubin ce la ricorderemo a lungo, per esempio.
L’autodifesa di Kaufmann
Ciò che più conta, in una disciplina diventata sempre più veloce negli ultimi anni e in cui non si contano più per esempio i casi di commozione cerebrale, la sicurezza di chi va sul ghiaccio è primordiale. Quanti infortuni gravi, quante carriere spezzate dovremo ancora osservare prima che vengano prese sanzioni esemplari nei confronti di chi non porta il minimo rispetto verso i propri colleghi? Tanti, se le risposte sono quelle fornite da Beat Kaufmann al portale TIO qualche giorno fa a proposito del caso Beat Gerber. L’ex presidente bianconero aveva candidamente affermato che «È vero che Hofmann sanguinava, ma poi il giocatore ha continuato la partita». E poi, tanto per fare chiarezza sull’episodio: «Noi condividiamo l’ostruzione e la sosteniamo. L’intervento è stato fatto senza disco e quindi la chiamata può essere considerata corretta. È anche vero che se gli arbitri avessero dato una penalità per carica alla testa anche questa scelta sarebbe potuta essere condivisa. Riassumendo il tutto: i due minuti sono sostenibili, ma anche i cinque minuti non sarebbero di certo stati scorretti». E per terminare in bellezza: «Nessuno mi ha chiamato dal Ticino lamentandosi dell’errore di gara-1 dei quarti sul rigore convalidato a Pettersson». Già, come se nell’occasione Tobias Stephan avesse rischiato di farsi davvero male. Lega, abbiamo un problema. Serio.